Coronavirus, un “passaporto dell’immunità” per tornare a lavorare?
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Nel Regno Unito si comincia a parlare nella comunità di esperti di «immunity passport», ovvero di passaporti dell’immunità. L’emergenza sanitaria per la pandemia di Covid-19 implica anche grandi problemi economici, in particolare ci si chiede quando sia possibile reinserire – e in che modo – i lavoratori guariti, e quindi da considerare non più contagiosi.
In Germania dove si è registrato il primo caso europeo, il Governo conta di effettuare 100mila test sierologici entro la fine di aprile, in modo da tracciare la diffusione dell’epidemia e individuare tutti quelli che hanno sviluppato gli anticorpi. Questi dovranno essere ulteriormente ripetuti, in modo da capire quando si potranno riaprire le scuole.
Non è così semplice. Rimangono ancora delle questioni aperte, perché questo virus lo conosciamo da poco. Quando siamo sicuri che un “guarito” potrà tornare alla vita lavorativa? Si ipotizza che SARS-CoV2 generi una robusta risposta immunitaria, tale da ridurre i tempi della convalescenza, ma non ne siamo tanto sicuri.
L’enigma dei convalescenti
Il problema infatti è la convalescenza, quel limbo in cui non si è più malati, ma nemmeno del tutto guariti, nel quale si è ancora potenzialmente infettivi. Un recente studio preliminare pubblicato sulla rivista Annals of Internal Medicine, basato su 22 pazienti dimessi dall’Ospedale, suggerisce la possibilità che il virus permanga anche dopo che i pazienti risultano negativi al tampone faringeo.
Abbiamo chiesto un parere a Stefano Prandoni, gestore del Gruppo Facebook L’influenza questa sconosciuta, uno dei punti di riferimento più tecnici che si possano trovare in rete riguardo all’infodemia sul Coronavirus.
«La probabilità è abbastanza bassa – spiega il medico – nel senso che la carica virale è molto ridotta rispetto a persone nelle fasi iniziali dell’infezione. Gli autori concludono che sono necessari altri studi per capire meglio questi aspetti».
L’immunità stessa non è detto che duri per sempre. I più pessimisti parlano di un anno, quelli ottimisti di cinque anni; tempi che sembrano comunque ragionevoli in attesa di un vaccino, che si spera possa essere somministrato alla popolazione già a partire dall’anno prossimo.
I futuri test per il “rilascio del passaporto d’immunità” dovrebbero stabilire con certezza che il lavoratore e lo studente non siano più contagiosi, in quanto davvero guariti e non ancora convalescenti. La preoccupazione maggiore è un’altra. Si teme che provvedimenti di questo tipo possano incentivare le persone a farsi contagiare, in modo da accelerare il reinserimento nel lavoro. Pensiamo in Italia al problema del lavoro nero.
Per quanto ancora potremo permetterci il distanziamento sociale?
Tutto sta anche alla sostenibilità dei tempi richiesti dalle normali misure di distanziamento sociale. Qui entra in gioco non solo l’economia, ma anche la resilienza della popolazione, di fronte a limitazioni che possono ledere i diritti civili.
Quanto potremo resistere alla quarantena? In Italia se lo chiedono in tanti, come il premio Nobel Riccardo Valentini; il professore di Ecologia forestale dell’Università della Tuscia e membro dell’Ipcc (Intergovernmental panel for climate change), intervistato recentemente su Repubblica, spiega a nome di tanti colleghi che «per far ripartire l’Italia è fondamentale identificare coloro che hanno sviluppato gli anticorpi contro il virus».
Non tutti possono essere stati identificati e confermati, pensiamo solo al problema degli asintomatici. Stati Uniti e Cina hanno già sviluppato dei kit per individuare gli anticorpi. L’idea è quella di effettuare uno screening alla popolazione non appena sarà finita la fase più critica dell’emergenza sanitaria.
Come funzionano i test
Sappiamo che la glicoproteina detta «spike» del coronavirus permette al patogeno di attaccare le cellule. Nel Sistema immunitario esistono le immunoglobuline (anticorpi) dette IgM e IgG: le prime attaccano subito la glicoproteina, ma sono di breve durata, le seconde sono più tardive ma possono permanere anche tutta la vita.
Per questo se nei test troviamo entrambe significa che il paziente è positivo, mentre la presenza delle sole IgG indicherebbe la sua guarigione. Ma non è così semplice, specialmente se dobbiamo capire quando si finisce effettivamente di essere contagiosi.
Qualcuno ha posto il dubbio che il nostro corpo sia effettivamente capace di sviluppare gli anticorpi giusti, come per l’Hiv. «No, il sistema immunitario sviluppa anticorpi protettivi come per tutte le altre malattie (ad eccezione dell’HIV) – continua Prandoni – Ci sono già diversi studi in proposito, sia nell’uomo che nell’animale, lo dimostra anche il fatto che viene usato il siero dei convalescenti con buoni risultati per curare i malati. C’è stato solo qualche singolo caso di persona risultata “reinfettata” dopo alcune settimane, ma in realtà sembra che i tamponi di controllo fossero falsamente negativi. Infatti, ci sono casi di persone in cui il virus risultava presente in gola per più di un mese dopo la guarigione».
Avere dei kit affidabili per i test è dunque fondamentale. Si parla anche di test commerciali da vendere in farmacia; in pratica degli “auto-test”. L’Associazione scientifica dei farmacisti italiani (Asfi), ha già messo all’érta i colleghi dal mettere in commercio kit del genere.
Il problema è soprattutto epidemiologico: tutti i cittadini con sintomi compatibili con Covid-19 dovrebbero infatti mettersi in auto-quarantena. Che succederebbe invece, se a causa di un errore del test si convincessero erroneamente di essere negativi? Di certo non sarebbe l’ideale per contenere la diffusione del contagio.
Foto di copertina: _freakwave_/Pixabay | Coronavirus.
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